La depressione è redditizia: questo dice l'industria patologica, che medicalizza affetto, tristezza, sonno, amore, sentimento di vuoto e vende un'idea di benessere, ma che, ad un certo punto, il soggetto dovrà affrontare i sentimenti in un altro modo.
E curano così tanto che non hanno il coraggio di uscire di casa, prendersi cura di se stessi, investire in una relazione, fare delle pause e affrontare le perdite.
E non si tratta di negare che ci siano casi in cui è necessaria la medicalizzazione. La sensazione di un rapido miglioramento posticipa ciò che deve essere detto e rieditato.
Gli studi, che sono stati chiusui in un momento di pandemia, sono vivi (online) e pieni di persone in cerca di un posto dove ascoltare e anche parlare del loro dolore.
Stanno realizzando che non è possibile essere sempre forti, risolvere tutto, non piangere, non soffrire. Comprendere che la fragilità fa parte di noi e, quindi, chiedere aiuto non è sinonimo di fallimento.
Il tentativo di trasformare la sofferenza in patologia è il grande marketing dell'industria psicofarmaceutica, che vende le sue strisce nere, che limita il soggetto nelle sue possibilità e vie per uscire dal malessere.
L'idea del normale e del patologico deve essere studiata meglio, così come una migliore lettura sopra le diagnosi e i loro effetti oltre le capsule.
La psicoanalisi propone che il soggetto depresso ritorni a fantasticare, a fare una traversata, che facilita l'accesso all'immaginario, aprendogli spazi per parlare dei suoi dolori.
Esporli, invece di coprirli. Tutti hanno qualcosa da dire, anche se non viene in mente per un pò.
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