"All'improvviso abbiamo sentito un boato più forte del solito. Ha cominciato a tremare tutto, come durante un terremoto. Pezzi di soffitto ci sono caduti in testa. C'era molta polvere, tossivamo e non riuscivamo a respirare. Nel buio sentivo urlare e piangere, ognuno chiamava i propri famigliari per capire se fossero vivi. Non ci siamo mossi per ore, stesi a terra e quasi soffocati. Eravamo certi che la terra sopra di noi si sarebbe aperta da un momento all'altro, seppellendoci per sempre".
Quando mercoledi il Teatro d'arte drammatica di Mariupol è stato centrato, probabilmente dalla bomba sganciata da un aereo russo, Olga Bestalova era barricata nel rifugio sotterraneo assieme al marito Oleh e ai due figli di otto e undici anni. I soccorritori li hanno aiutati a riemergere dalle tenebre questa mattina, aprendo un varco davanti all'ingresso del bunker in cui erano scesi dodici giorni fa. Oleh ha camminato subito per due chilometri, fino all'edificio sotto cui si capta il segnale della rete telefonica ucraina. L'unica chiamata è stata alla madre Mikhaylyna, fuggita lunedì e arrivata a piedi nel villaggio di Nikolske, alle porte della città circondata. "Abbiamo capito che il teatro era crollato sopra di noi - le dice - perché l'uscita del rifugio era bloccata. Sotto platea e palco non c'è un solo scantinato. Eravamo divisi in spazi diversi, senza poter sapere se gli altri avessero retto. Abbiamo avvertito che stava tornando a filtrare aria: è stato chiaro che qualcuno ci stava cercando. I più anziani non sono voluti uscire perché non hanno un altro posto sotto cui ripararsi dalle bombe".
Sono queste le prime voci dei sopravvissuti all'esplosione nel teatro che rappresenta il cuore storico di Mariupol. Fino all'alba di ieri, a causa degli incendi e dei bombardamenti incessanti che stanno finendo di radere al suolo la Leningrado dell'Ucraina, le autorità locali hanno temuto una strage tra i 500 e i 1200 morti. Si sarebbe consumata, se la gente nascosta non si fosse ammassata nel sottosuolo: se i rifugi, invece di reggere, fossero crollati. Anche in guerra però accadono prodigi: un po' alla volta l'incubo dell'ecatombe si è attenuato e i sepolti vivi hanno rivisto la luce nera del cielo sopra Mariupol. Dopo l'esplosione di tetto e facciata molti sono fuggiti facendosi strada dalle uscite di sicurezza. Altre centinaia, mentre i russi avanzano di quartiere in quartiere, avrebbero cambiato riparo nei giorni scorsi. Nel primo pomeriggio i soccorritori avevano salvato 130 persone, tra cui molte mamme con i loro bambini. Fino al coprifuoco, nonostante i missili non abbiano mai smesso di colpire ciò che resta di palazzi e strade, le ricerche sono continuate.
Ancora impossibile il bilancio del barbaro attacco contro il luogo che Putin vuole cancellare per mostrare all'intero Paese occupato la fine che lo attende se si ostina a resistere. Non ci sono stime ufficiali su eventuali morti e feriti. Nemmeno i superstiti conoscono le conseguenze del crollo di quello che consideravano il posto che "nemmeno un criminale avrebbe mai ostato colpire". "Noi eravamo nella sala tecnica - dice Evgenij al telefono con la sorella Alina - e nessuno è rimasto ferito. Siamo scappati verso il fiume, non ho sentito qualcuno parlare di vittime".
Ci vorrà tempo, nella città isolata e inaccessibile, per avere un quadro reale e verificabile. Ieri sono risultati vani anche i tentativi di ricontattare qualcuno tra i quasi 500 medici, infermieri e malati ostaggi da quattro giorni delle truppe russe all'interno dell'ospedale regionale di terapia intensiva. Muti i cellulari, nessun messaggio dai sequestrati. Certo è, grazie alle immagini, che fuori dal teatro erano visibili a distanza i cartelli con la scritta "diti", bambini, esposti anche sulla piscina Neptun centrata sempre mercoledì. Chi ha sganciato la bomba non può essere incorso in un incidente. Mosca continua a negare le sue responsabilità e accusa la resistenza del battaglione Azov di ave minato il teatro per "provocazione".
Il dramma è che ormai ogni edificio ancora in piedi, come ogni auto che riesce a fuggire, esibisce la scritta "diti", o il simbolo della Croce Rossa. Lo sperato salvacondotto non protegge più da razzi e cecchini sia russi che ucraini, convinti che l'avviso serva a immunizzare i nemici. La gente della città è nel mezzo di questo fronte, obbiettivo e scudo dei due eserciti in guerra. "A Mariupol - dice Violeta, 40 anni, manager fuggita ieri mattina con sei famigliari tra 22 e 85 anni - nessun edificio ha più i vetri alle finestre. Solo lasciando il rifugio dopo due settimane ci siamo resi conto delle centinaia di cadaveri per le strade. I negozi sono stati razziati dalle persone alla fame. Impossibile continuare a sopravvivere sottoterra: i bunker ormai scoppiano di escrementi e rifiuti".
Secondo superstiti evacuati, i russi sono già in ogni quartiere e stanno "pulendo dai civili" i settori della città, partendo dalla zona delle acciaierie Azovstal, a est del ponte minato sul fiume Kal'mius. "Ti lasciano fuggire - dice Toma, ex maestra di 84 anni - solo dopo aver verificato che nella tua casa non si nascondano soldati ucraini. Al minimo sospetto ti sparano, o ti deportano in pullman a Rostov sul Don, prigioniero in Russia". Migliaia le famiglie intrappolate perché senza più auto, travolte dai crolli, o prive di benzina. Colonne di macchine si avviano verso Zaporizhzhye trainandone altre con le corde. Lungo la strada, bersagliata dai tank del Cremlino, volontari offrono bottiglioni da cinque litri di carburante. "Giusto inorridire - dice Ruslan, in marcia verso parenti a Vinnycja - per gli attacchi a teatro e ospedali. Ma il mondo non può più restare inerte davanti alla tragedia di 350 mila persone condannate a morire di sete, freddo e fame, o colpite dai missili". Le vittime sarebbero già oltre 3 mila. Governo di Kiev, medici e organizzazioni umanitarie stimano che la strage possa presto salire a quota 20 mila. Quando Mariupol verrà restituita alla terra, entrare sarà una vergogna per chi oggi non vuole guardarla.